Marco Giusti
Una gallina, una vecchina, una Madonnina, un ciabattino, un uomo col bastone, il panino co’ i’ lampredotto… C’è qualcosa di estremamente familiare nelle foto di Federico Pacini. È qualcosa che non troverete né su Instagram né su Twitter né sui social in genere. Familiare, almeno per me, perché ci riconosco l’entroterra toscano del senese e del grossetano, dove sono nato. Un mondo un po’ triste e lontano, fatto di anni e anni, magari secoli, di povertà, dove, come scriveva Padre Balducci, non era passata nessuna rivoluzione, nessuna Unità d’Italia e tutto era uguale dal Seicento. Almeno fino all’avvento della televisione negli anni sessanta. Ma anche allora non è che la povertà non ci fosse in quella campagna. Una povertà e come un vuoto che la accompagna. Non che la povertà sia sempre un male, badate. Almeno la riconosciamo. Fin dai tempi di Pinocchio, che se gli togli la miseria gli togli tutto. Eppure c’è un amore nel ritrarre tutto questo che percepisco istantaneamente. Perché forse avrei ripreso le stesse cose. Perché le stesse cose hanno un fascino triste e lontano anche per me. E, un po’, mi divertono pure. Perché so in qualche modo di farne parte o di averne fatto parte. Non le troverete di uguali su Instragram né su Twitter né sui social in genere, ho aggiunto, perché non c’è nessun tipo di concessione, o quasi, a quello che possa fare spettacolo, o attrarre i follower, come lo si intende oggi. Né concessione alcuna alla “bellezza” delle immagini come la si intende oggi. Immagini che ci bombardano. Proprio per questo, o in contrapposizione a questo, le foto di Federico Pacini che scorro mi raccontano molta più verità delle foto “piene” di vita e di spettacolo dei social. Mi raccontano anche uno sguardo su quel mondo, una consuetudine a ritrarre la realtà che ci scorre davanti e che riconosciamo, ammetto, perfino con una certa soddisfazione. Una volta, quaranta, cinquanta anni fa, arrivai col trenino da Grosseto a Siena alla stazione del Monte Amiata. Scesi e andai al bar. Mai stato prima lì, forse una volta con mi’ zi’ Umberto o zi’ Checco da piccolino. Eppure venni immediatamente riconosciuto, ero un ragazzino, come appartenente alla mia famiglia non perché mi avessero mai visto, ma perché riconoscevano i lineamenti, il taglio degli occhi, la fronte. Come se facessi parte del paesaggio umano, animale, architettonico della zona. Ora, magari, non sarebbe più possibile, la gente non è più così stabile in un posto, e non c’è più la stessa attenzione da parte di chi guarda. Ecco, quello che riconosco nelle foto del Pacini è proprio questa tracciabilità, questa capacità di riconoscermi dentro uno sguardo e dentro un muro, un Bar Tabacchi, un piatto di salsicce, una vecchia sede del PCI. Anche in un affresco di chissà quale secolo messo lì a ricordarci che pure l’arte, la storia, oltre alla povertà, fa parte di questa riconoscibilità. Ma senza strafare. E così ci riconosciamo in un ciabattino nel suo negozio, in un negozio vuoto e chiuso da chissà quale tempo e in un affresco che la storia ci ha lasciato lì.
Non andare troppo lontano, 2022 (Editrice Quinlan)