Elio Grazioli
Il proprio sentire
La prima immagine di un libro di immagini è un po’ sempre una dichiarazione, l’entrata poetica, nel duplice senso di questo termine, cioè sia della propria personale estetica e della tonalità lirica con cui si invita ad affrontare le immagini che seguiranno. La tonalità è importante, perché lo stesso contenuto rappresentato nell’immagine può assumere un significato del tutto diverso, e allora anche l’estetica personale può essere fraintesa. Dunque qui, a noi pare, che la tonalità indicata dalla prima immagine sia di pacatezza e di partecipazione, non di distacco e di riflessiva intelligenza visiva, non di ironia. Un’immagine nell’immagine, una foto nella foto non sono qui l’esibizione di una consapevolezza metalinguistica assertiva – so quello che faccio e ti indico io come devi intenderlo – quanto una moltiplicazione dei piani, dei livelli, un invito a non fermarsi alla prima impressione, al primo pensiero, non per approfondire – sarebbe presuntuoso e ancora un volta normativo – ma per considerare tutto insieme, tutto nella e della stessa immagine, come è proprio appunto dell’immagine, che conserva tutto quello che inquadra.
Dunque, una fotografia di Siena appesa a una parete a Siena, con sopra riflessi di Siena, in cui varie gradazioni di dominanti azzurrine trasmettono una sensazione di sognante sospensione. Ne troveremo diverse altre lungo il libro, un filo rosso, almeno per noi, o una punteggiatura di richiami: al luogo, all’atmosfera, all’intenzione, alla fotografia stessa.
Ci piace questa idea di Federico Pacini, che non perde uno scatto quando vede un’immagine o un richiamo a Siena al di là di un vetro, dentro una casa, da qualsiasi parte, ci verrebbe da pensare. È del resto un tema molto importante e attuale oggi, l’idea del luogo, dello spazio vissuto, l’attaccamento al proprio territorio da un lato e l’immaginario dall’altro. Pacini, proprio conservando entrambi i versanti di questa idea, scansa la restituzione “provinciale” di molta fotografia, e letteratura, italiana appunto di provincia, senza indugi vignettistici o indulgenze nostalgiche.
La seconda fotografia del libro è l’altra chiave: l’accumulo. È naturalmente la sostanza del libro stesso, e dell’attività del fotografo, ma è anche, di nuovo, l’indicazione di come stanno insieme le cose secondo il nostro autore. Qui è principalmente un accumulo di statue e fontane da giardino in un angolo, per certi versi un po’ patetico, ma creatore di strana indefinibile bellezza. È una visione del mondo – da fotografo, ha già spiegato Susan Sontag – e un’immagine dell’Italia, fatta di accostamenti incongrui, di tempi stratificati, di stili e dettagli inspiegabili, che tuttavia stanno insieme e formano una enigmatica “metafisica” unità.
Così è infatti l’insieme del libro di Pacini: diversi filoni tematici sparsi e ritmati nelle ricorrenze e negli incastri, dove gli accostamenti tra immagini successive arricchiscono le singole e intrecciano i temi. Si prendano le immagini dentro altre immagini, non più di Siena ma di ogni tipo: alcune evidenziano i contrasti – il Papa con Playboy, la religione con la pubblicità, il moderno con l’antico, il cinese con il toscano – altre aprono mondi, soprattutto le “collezioni”, se così si possono chiamare, che siano di nanetti da giardino o di foto o quadri in case e luoghi pubblici, magari sullo sfondo di un ritratto o riflessi in uno specchio. Le collezioni sono varianti del tema dell’accumulo, evidentemente, così come gli espositori, di riviste, di cartoline, di souvenir, di bibite, o le vetrine con manichini acefali e con “saldi” talmente datati che neanche le scritte sono più integre. Qui appare per la prima volta il lampo del flash, fortissimo e centrale: è lì per richiamare il fotografo, acefalo pure lui; occhio pineale che sta al posto della mente calcolatrice? Il flash ricorre poi molto spesso e talmente al centro dell’immagine che sembra il lampo di uno sparo, secondo la famosa identificazione tra colpo-sparo e colpo-scatto, una visione che colpisce il bersaglio.
Ci sono in queste fotografie anche tanti luoghi di esposizione, che siano palcoscenici abbandonati o pensiline semidistrutte, spazi pubblicitari, predisposti o occasionali – come le clamorose tendine con scritto “Dio è amore” – e appunto tante parole e frasi registrate dallo strumento fotografico, anche questo un filone a pieno titolo all’interno del libro. Alcune sono evidentemente “metalinguistiche”, cioè si riferiscono fin da subito alla fotografia. Ma quali, in realtà? Perché se lo sono alcune, lo devono essere tutte in un modo meno diretto.
Prendiamo quella con due persone che si abbracciano sotto il cartello stradale con il nome del paese in cui si trovano, “Braccio”: bella variante del filone fotografia nella fotografia, qui sotto una lampada sferica che varia il tema delle luci, riflessi, flash e altro, l’immagine acquista pathos proprio perché è una foto d’altri, personale, privata, da album di famiglia, come si usa dire oggi; ebbene, questa foto nella foto messa all’insegna dell’abbraccio non è una suggestiva visione del metalinguaggio stesso? Oppure prendiamo l’invasivo “Purtroppo ti amo” che ricopre altre scritte a contenuto politico su una pensilina malconcia: è il doppio paradosso di ogni amore e al tempo stesso di ogni fotografia, e la dichiarazione d’amore del fotografo stesso.
A un certo punto del libro, come fuori registro, si incontrano delle immagini che sembrano diverse dalle altre, inattese addirittura, almeno alcune, che arrivano a far sentire il dramma anche, insospettabile nelle altre. Sono quelle che comportano la presenza umana, alcune sono veri e propri ritratti in posa, altre vengono rubate al momento. Le più drammatiche sono introdotte da due fotografie fortemente allusive: la prima riproduce la sagoma di un coltello e due volte la parola “Lame”, minacciosa; la seconda la scritta graffita “L’odio”. Seguono due ritratti enigmatici separati tra loro da due immagini di stanze vuote, la prima che parla di solitudine e la seconda di attesa; i due ritratti esprimono questi due sentimenti in maniera non edulcorata: un anziano solo e impaurito accovacciato e un giovane adulto seduto dall’aria smarrita, tagliato in due dal passamano come una sorta di “io diviso”.
Queste immagini ci ricordano di non trascurare né sottovalutare il compito che Pacini affida alla sua ricerca, che è anche quello di mostrare certi lati meno frequentati o emarginati, che non sono solo la malattia o la solitudine, ma anche gli altri disseminati nella componente “patetica” di tutte le sue immagini. Il gruppo dei ritratti ci ricorda che a riscattare la parte negativa è il senso di comunità e di appartenenza che esse – di nuovo: tutte – trasmettono. È così che la provincia, invece di chiudersi nella rivendicazione del particolare, traspira universalità.
Questo, forse, è il senso dell’enigmatica ultima immagine del libro. Vi si vede uno di quei presepi fatti di sagome ritagliate, in questo caso bianche, particolarmente fantasmatiche, disposte in un paesaggio del tutto privo di attrattiva. Di nuovo c’è un che di risibile in ciò che è rappresentato, ma al tempo stesso il tema è quello della nascita, del ricominciamento, di una natalità che è universalmente simbolo di redenzione, che si sia credenti o meno. È l’auspicio di Pacini, la sua fiducia nel compito di queste fotografie, tanto più, specifichiamo noi, se così calibrate e discrete nel loro messaggio, non chiassoso né retorico, quasi silenzioso anzi, di un silenzio, non è inutile ribadirlo, che sa farsi strada nelle menti.
Elio Grazioli
Purtroppo ti amo, 2013 (Editrice Quinlan)